Un buon proposito per il 2019

La foto è tratta da Twitter @DRRDynimacs Kevin Blanchard

E’ iniziato il 2019, e come di consueto ognuno di noi cerca sempre un buon proposito da portare avanti.

Mi sono prefissato un buon proposito alquanto particolare.  Studio disastri ed emergenze, ma mi accorgo sempre di più che la parola “disastri naturali” viene usata indiscriminatamente, come se tutta la distruzione che si portano dietro sia colpa della natura. Nei disastri non c’è nulla di naturale. Danni alle nostre comunità non vengono dai rischi naturali, che certo contribuiscono, ma è la società che è responsabile per quello che succede. E’ la nostra incuria nel gestire il territorio, nel costruire il mondo in cui viviamo a far si che i rischi naturali amplifichino la loro azione su di noi.

Ho deciso quindi, da buon scienziato, di seguire i passi di Kevin Blanchard (se non lo conoscete seguitelo su Twitter @DRRDynamics) e di portare avanti la campagna #NoNaturalDisasters a prova che la comunità scientifica sta alzando la voce sul fatto che i disastri non sono naturali. Agenzie governative, O.N.G. e altri diffondono un concetto pressoché sbagliato. Serve quindi una campagna di informazione che faccia luce sulla definizione di disastro.

Un appello lo lancio anche a chi mi segue qui o su Twitter: diffondete, i disastri non sono naturali!

 

Assicurazioni e dintorni

Visto che questo blog si chiama il Dialogo…allora dialoghiamo! Continuiamo a parlare di assicurazioni sui disastri, visto che Francesca ha aperto la discusssione. Senz’altro è un tema sentito e va analizzato con ponderazione. Si, perchè avviare un piano nazionale di assicurazione contro le calamità non è come assicurare la propria macchina. Ci sono fattori e processi ben molto più complessi di quanto si possa immaginare.

Innanzitutto dobbiamo considerare se istituire un programma nazionale gestito da un ente governativo oppure lasciare che siano le singole assicurazioni a 1) decidere i premi assicurativi 2) le tipologie di rischio per cui si è assicurati 3) il massimale che viene coperto.  Sulla copertura assicurativa va poi identificato come assicurare, massimale? Valore di mercato della casa?

Se si istituisce un ente governativo che scrive le politiche di gestione delle polizze assicurative si potrebbe avere un piano nazionale, con annesso anche un fondo, accumulato annualmente, che metta un tetto massimo per i premi assicurativi. Sfortunatamente di piani governativi per la gestione delle coperture assicurative non ce ne sono molti.

Nel 1968, il governo federale Americano istituì il National Flood Insurance Program NFIP, con lo scopo di sussidiare il costo delle polizze assicurative per proprietari di case che non potevano acquistarle dalle compagnie private. L’NFIP è in rosso di 24 miliardi di dollari (Hayat & Moore, 2015) e ha sempre fallito nel provvedere la necessaria copertura. Ci sono stati tanti, troppi cambiamenti al sistema. I premi assicurativi venivano calcolati in base alle Flood Insurance Rate Maps e alle Special Flood Hazard Areas. Le mappe servono a quantificare il livello di rischio e calcolare il relativo premio. Sfortunatamente, in alcune situazioni (vedi Uragano Sandy 2012) le mappe non erano aggiornate. La FEMA rilasciò le mappe aggiornate solo nel Dicembre 2012. Con le mappe aggiornate, il Governo Americano decise che l’NFIP doveva essere aggiornato. La Biggert-Waters Act stabiliva che le polizze assicurative dovessero incrementare il premio di un 25% annuo fino a riflettere il costo basato sul livello di rischio. Dopo l’Uragano Sandy migliaia di famiglie si sono trovate a pagare premi assicurativi che arrivano a toccare i 5000 dollari e oltre.

Premesso che l’NFIP è un sistema fallato e fallito, la cosa che si sperava di ottenere era di condividere le spese di rifinanziamento della ricostruzione. La FEMA dà un massimo di 34.000 dollari per la prima assistenza. Lo Small Business Administration elargisce finanziamenti fino a 250.000 dollari a tassi vantaggiosi (max 2-3%).

Alla luce di una esperienza che quest’anno ha compiuto 50 anni, cosa ci dovremmo aspettare in Italia? L’NFIP copre solo il flood risk, il rischio alluvione. Per altri rischi, altre polizze. L’Italia che un paese che un giorno si l’altro pure è colpito da alluvioni, terremoti, frane e incendi boschivi, come dovremmo regolarci? Una polizza tuttofare? Lasciamo alle assicurazioni decidere per cosa assicurarci in base ai piani di protezione civile? Si, perché se le assicurazioni decidessero autonomamente, farebbero in modo che il rischio alluvione non copra il rischio terremoto. Oltretutto, chi calcola il livello di rischio e di danno atteso? Qui dovremmo incrociare una serie di dati che non ha fine. Mappe di rischio sismico, alluvionale, etc. mappe catastali, sia per controllare l’abusivismo edilizio, sia per analizzare i rischi primari e secondari sulle abitazioni. E ci vorranno anni per completare il tutto…che poi alla fine si deve ricominciare perché le mappe cambiano, la geografia dei rischi si modifica nel tempo. Per non parlare poi del conto finale. Quanto verrà a costare una polizza “media”? 1.000, 2.000, 3.000 euro? In quanti sarebbero disposti a pagare tali cifre se fossero queste le cifre?

E se poi dobbiamo necessariamente accedere alla copertura perché la casa ci è stata spazzata via dall’alluvione o distrutta dal terremoto? Le stime dei danni chi le fa? Le assicurazioni o un ente imparziale? Si perché le assicurazioni potrebbero avere tutti gli interessi ad abbassare la stima dei danni per pagare di meno (cfr. Uragano Sandy, NJ 2012). Non solo. Il valore della casa come viene stimato? Valore di mercato attuale o pre-disastro?

Assicurarsi per alleggerire il carico della spesa pubblica sul finanziamento della ricostruzione sarebbe un piano ambizioso, ma purtroppo dispendioso in tempo e finanze. Dubito fortemente della volontà degli italiani di assicurarsi contro le calamità. Preferirei di gran lunga rafforzare il comparto prevenzione e mitigazione piuttosto che pensare a come poter poi ricostruire.

Quando la sicurezza infrastrutturale è sinonimo di salute e resilienza

 

7.30 del mattino. Come tutti i giorni mi alzo e la prima cosa che faccio è accendere la tv e cercare un tg. Come sempre mi focalizzo su notizie su economia che non va e politica fallimentare. Giovedì è stato diverso. I tg, da Rai a Sky mandano in onda immagini di un treno deragliato alle porte di Milano. Da buon osservatore, scrutando attentamente le immagini, cerco di capire come si sta gestendo la maxi-emergenza, piuttosto di capire come sia successo. Purtroppo per osservare bene bisogna essere sul posto e capire le dinamiche che si creano tra soccorritori, coordinatori e flussi di comunicazione.

E quindi niente da fare. Cambio e focus e cerco di capire cosa è che non va in quella situazione. Più che la gestione, penso al sovra-sistema, cioè a tutto quel mondo che ruota nel quotidiano che mette in movimento questo Paese e i suoi cittadini. Il primo pensiero è “una infrastruttura critica che non funziona, è lo specchio di una Nazione che non funziona”.

Le ferrovie, come le life lines, i sistemi informatici e di comunicazione, sono infrastrutture critiche, che se messe sotto stress o colpite da malfunzionamenti prolungati o attacchi terroristici, bloccano una intera Nazione. Merci, organizzazioni, enti, servizi si arresterebbero, portando ad un accumulo di una domanda di servizio, una incapacità di risposta e un ripristino caratterizzato da costi iniziali di gestione altissimi per poter poi tornare alla normalità.

Le infrastrutture, per loro natura critiche, hanno una rilevanza strategica di altissimo livello. Se lo stato di salute delle infrastrutture viene trascurato, la loro capacità di assorbire gli impatti verrà meno; l’abilità di rispondere in modo efficace sarà lenta e il percorso di recovery sarà travagliato. Per questo, è necessario che sia sempre tutto efficiente e performante; che i sistemi di supporto secondario siano pronti ad entrare in sostituzione delle reti primarie. Perché la rete infrastrutturale nazionale sia resiliente e capace di tornare alle prestazioni di regime, è necessario che tutti gli enti coinvolti conducano verifiche periodiche a cadenza più ridotta e più precisa. Dal punto di vista amministrativo, mi sento quasi di dire di ridurre il sistema degli appalti e subappalti, per evitare di allungare la catena delle responsabilità e garantire un servizio migliore. 

Pioltello, Andria, Viareggio, sono solo alcuni degli incidenti che hanno, non solo messo in luce carenze e mancanze, ma quanto il sistema della infrastrutture critiche della Nazione sia fragile e soggetto a rischi di incidenti rilevanti. E poi alla fine di tutto, oltre i danni, contiamo il numero delle vittime, che sulle infrastrutture ci fanno affidamento ogni giorno.

Certificazioni: chi si, chi no e delucidazioni

E’ un pò di tempo che mi frulla in testa l’idea di scrivere qualcosa sulle certificazioni per emergency manager/disaster manager. Oltretutto, proprio qualche giorno fa un mio carissimo amico mi ha chiesto maggiori informazioni e se realmente conviene intraprendere questo percorso, che tengo a precisare, non è né semplice, né breve.

La storia dei disaster manager in Italia è stata spesso travagliata. Si sta riaprendo un filone di pensiero che vuole portare al centro del dibattito la figura a 360 gradi del disaster manager o emergency manger, che a dir si voglia. Per dimensione culturale del sistema italiano, la protezione civile è stata costruita intorno a figure professionali specializzate, quali vigili del fuoco, ingegneri, medici, militari e via dicendo. Questi professionisti hanno messo al servizio della protezione civile, la propria formazione, le proprie competenze e capacità manageriali.

Ricordo benissimo, quando mi fu detto (da un funzionario pubblico) che, “finché si avranno queste figure professionali, del disaster manager non ce ne sarà bisogno”. In fondo è solo un problema culturale, non organizzativo. Tanto più che la figura del disaster manager, per un pò di tempo era apparsa sulla scena, poi come d’incanto scomparsa. E solo da poco, vedo finalmente con piacere, che la discussione si è riaperta, con l’introduzione delle norme UNI, precisamente la UNI 11656/2016.

La norma UNI di recente introduzione va a colmare una lacuna, che per tempo il legislatore italiano non ha mai saputo soddisfare. Oltretutto presenta un framework di valutazione piuttosto “corposo” che tocca, non solo le aree di competenza: previsione, prevenzione, soccorso e ripristino; ma soprattutto le capacità individuali, manageriali e relazionali del singolo individuo che ne farà richiesta. Ricordiamo sempre che il disaster manager, prima di tutto è una persona, che deve rapportarsi con i propri colleghi e altri individui. La sola conoscenza di leggi e decreti e concetti, senza un minimo di leadership e attitudini collaborative, non ne farà di certo un buon disaster manager.

Chi ne può beneficiare? Sicuramente i dipendenti pubblici, che hanno esperienza professionale nel settore delle emergenze. Infatti, leggendo il processo di certificazione, si richiedono anni di esperienza lavorativa, e quindi retribuita. Nell’ottica di una pubblica amministrazione sempre più in linea con i principi del New Public Management, le credenziali e certificazioni dei dipendenti pubblici (corsi di formazione, studi extra-curricolari) sono di sicuro un punto di riferimento per chi vuole, o acquisire ruoli di responsabilità o progredire di livello nella piramide della gerarchia burocratica.

Questo vale anche per quelle figure che sono preposte all’emergenza in grandi compagnie private, come ad esempio impianti petroliferi, impianti nucleari, etc. E nel settore privato, va oltretutto menzionata la business continuity, che presenta percorsi condivisi con il disaster management, e altri piuttosto specifici.

No ai volontari! e me lo sento di dire a tutti, senza remore, e pronto a prendermi le critiche. I volontari non sono professionisti! e come tali, gli anni di volontariato, non saranno mai paragonati ad anni di esperienza lavorativa. Ogni organizzazione è libera di rilasciare pezzi di carta volta a “certificare” il proprio personale ad uso interno. Ma di certificazioni autoreferenziate il settore della protezione civile non ne ha bisogno. La norma Uni è per professionisti! A meno che il volontario, non sia a sua volta un professionista, al che la musica cambia.

In conclusione: in Italia abbiamo davvero bisogno di una certificazione UNI? Si e no. Culturalmente il nostro sistema è ancorato alle professioni distinte. Ma per un cambio di mentalità, allora la certificazione sarà un bel passo avanti.

Se il terremoto colpisce, la burocrazia colpisce più forte

Credit: TgCom24

Se la grandezza di uno Stato si misura in base alla capacità di ascoltare le necessità reali della gente, allora l’Italia ha fallito miseramente. Sono un po’ di giorni che nel cervello mi frulla la questione di Peppina, la signora di 95 anni che il mese scorso si è vista negare la possibilità di alloggiare in una abitazione temporanea, regalata dai propri parenti, dato che la sua casa originaria era stata distrutta dal terremoto. Continua a leggere

Memorie: venti anni del terremoto Umbria-Marche e riflessioni sul ripristino post-emergenziale

Sono le 8.33 di sera sul fuso orario di New York, in Italia le 2.33 del mattino. Esattamente venti anni fa, la mia regione, l’Umbria, e le Marche venivano scosse nella notte da un fortissimo terremoto. Saranno pur passati venti anni, ma il ricordo di quella notte resta ancora vivo nella mia mente. Letto che trema, finestre che sbattono, e nel condominio dove vivo (si perchè a Natale ritorno sempre) gente che urlava e nel buio cercava di accendere la luce. Apri la porta di casa e scendi le scale, per raggiungere il giardino. Notte insonne, con la radio accesa ad ascoltare le notizie sulle frequenze dei tg nazionali. Continua a leggere