Ogni tanto sui giornali si torna a parlare di comunicazione in emergenza. Per dire in sostanza che nel nostro paese non sono stati ancora fatti quei passi avanti significativi perché le persone possano usufruire di informazioni il più possibile dettagliate su cosa fare e cosa non fare in un momento delicatissimo come una grande emergenza in corso. Ci troviamo in un’epoca in cui la comunicazione tradizionale funziona, seppure con tutte le sue lacune e con contatti in calo e comunque nettamente inferiori di quelli dei social network, consultati soprattutto sugli smartphone. Uno scenario dove però la “nuova” comunicazione social versa in uno stato di completa confusione. Il tutto vissuto con la netta impressione che se la comunicazione sui social in emergenza fosse “regolata” e “organizzata” al meglio potrebbe rivelarsi il mezzo più efficace di veicolazione dei messaggi alla popolazione.
Questo stato della realtà della comunicazione in emergenza si scontra con una comunicazione social che sta crescendo nel resto della Pubblica Amministrazione italiana. A testimoniarlo il percorso #PaSocial, che apporterà nel prossimo futuro un’ulteriore accelerazione nell’utilizzo dei social per comunicare ai cittadini.
La situazione attuale si può osservare facilmente nei minuti successivi ad un terremoto, o nelle ore in cui un territorio viene colpito da un nubifragio. Tweet, post su Facebook, foto e stories su Instagram si rincorrono disordinatamente. Con fonti diverse, istituzioni, forze dell’ordine, account di giornali, radio e TV, cittadini colpiti, cittadini lontani ma partecipi, persone che sentono il terremoto in zone anche molto lontane dall’epicentro che arrivano a postare “Terremoto a Roma” quando l’epicentro è prossimo ad Amatrice in provincia di Rieti. Nello stesso momento odiatori seriali già se la prendono col governo di turno, attuale o passato, per la magnitudo errata di qualche decimale o mentre angosciati genitori con figli studenti fuori sede entrano nel panico o mentre tweetstar famose già cavalcano l’onda della solidarietà. Con hashtag che si succedono o si contrastano, quando quelle poche, decisive informazioni che servirebbero davvero magari si perdono nell’etere come un astronauta di “Gravity”.
Tutto questo si può riassumere in alcuni termini solo apparentemente tecnici, “confusione delle fonti”, deficit di “feedback” e deleterio “noise”.
A questi problemi si aggiunge la natura davvero particolare del Sistema di Protezione civile italiano, così come è scaturito dalla famosa riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Il Sistema si basa sul coordinamento in emergenza, tra le “componenti”, cioè le istituzioni di diverso livello responsabili del governo di comuni, aree vaste e regioni e le “strutture operative”, cioè i Vigili del Fuoco, le Forze dell’ordine, le Forze Armate, le organizzazioni di volontariato dalle più grandi (Croce Rossa, CNSAS, Anpas, Misericordie, CISOM, ecc) fino alle più piccole associazioni comunali. A questi soggetti vanno aggiunti i Centri di Competenza, cioè gli istituti scientifici che coadiuvano la Protezione civile (sia quella nazionale, sia quelle regionali), dal famoso INGV, per terremoti e vulcani, al CNR Irpi, all’Ispra, alle ARPA regionali, ai centri specializzati nelle previsioni meterologiche. E poi le grandi aziende di servizi, dalle Ferrovie dello Stato, ad Alitalia, fino a ENEL, ENI, TERNA, ACEA, ecc. Senza dimenticare i giornali e in generale tutti gli operatori dell’informazione, qualunque mezzo essi usino per informare la popolazione. In tutto questo il coordinamento a seconda della portata dell’evento spetta al Dipartimento della Protezione civile nazionale della Presidenza del Consiglio o ai Presidenti delle Regioni fino ai sindaci, prima vera e propria autorità di protezione civile.
Solo leggendo distrattamente tutto questo ci si rende conto delle difficoltà sostanziali a prendersi la decisiva (in emergenza) responsabilità di informare i cittadini e creare la giusta comunicazione vincente, nell’ottica dello sviluppo della prevenzione e della resilienza necessarie.
A ciò si aggiunga l’attenzione, comunque giusta e legittima della magistratura che per esempio nel caso del terremoto de L’Aquila in primo grado aveva proprio punito comunicazioni fuorvianti.
Ma per fare chiarezza cerchiamo a mo’ di elenco di fare luce sugli aspetti più discussi e rilevanti ma allo stesso tempo ancora poco chiari.
1 – La querelle delle fonti. E’ forse il problema principale nei primi minuti di un’emergenza. Chi comunica cosa e quando. La prima autorità di protezione civile è il sindaco. Un evento colpisce un comune o un insieme di comuni, in una sola o in diverse regioni. Diventa importante cominciare a comunicare sui social anche per i centri più piccoli. E’ difficile, oggi, trovare un sindaco che non abbia i propri account personali, aperti e sviluppati in campagna elettorale. Oppure un comune che non abbia account istituzionali. Si può partire anche da lì. Account che raccolgono quotidianamente le attività di tutta l’amministrazione ma che in emergenza possono essere dedicati alle informazioni utili alla comunicazione. L’alternativa è pensare ad “account di protezione civile” dedicati alla comunicazione sul rischio in “tempo di pace” e alle informazioni ai cittadini in emergenza, soluzione che molti addetti ai lavori preferiscono per una questione di chiarezza.
Le comunicazioni che arrivano dall’ente di prossimità più vicino all’epicentro di un terremoto o dove si è verificata una piena di un fiume o di un torrente sono fondamentali. E possono “condurre” il resto del sistema, dalle Regioni al Dipartimento nazionale nell’indicare a chi da lontano cerca di ricevere notizie. Ai comuni si possono affiancare, come fonti “primarie in emergenza”, le strutture operative impegnate sul campo fin dai primi minuti. Diventano importanti account come quello dei Vigili del fuoco, o del Soccorso Alpino o dei Carabinieri Forestali. Le voci “autorevoli” di Regioni e DPC acquistano un ruolo decisivo nell’indicare quali account seguire e per quanto tempo. A ruota gli account informativi che darebbero ancora più affidabilità a voci coordinate e dotate di un’autorevolezza condivisa.
2 – La mancata legge. Secondo la legge 265 del 1999 il sindaco ha la responsabilità di informare i cittadini sui rischi, sul piano di protezione civile che ha il dovere di realizzare e su tutto quello che riguarda un’emergenza che colpisce il territorio comunale. Stop. La legislazione italiana non contempla nient’altro e non indica ulteriori responsabilità. Né in capo al Capo Dipartimento della Protezione civile, né al Presidente del Consiglio né ai prefetti, né ai presidenti di regione. Anzi la legge emenda proprio un articolo di un regolamento precedente che dava al Prefetto la stessa responsabilità. Anno? Come detto, 1999. Quando, forse, qualcuno aveva un e-mail. La legge delega, approvata nel 2017, fa ben sperare visto che parla chiaramente di comunicazione al comma 2 dell’articolo : “omogeneizzazione, su base nazionale, delle terminologie e dei codici convenzionali adottati dal Servizio nazionale della protezione civile per classificare e per gestire le diverse attività di protezione civile, ivi compresi gli aspetti relativi alla comunicazione del rischio, anche in relazione alla redazione dei piani di protezione civile, al fine di garantire un quadro coordinato e chiaro in tutto il territorio nazionale e l’integrazione tra i sistemi di protezione civile dei diversi territori…”. Non si fa riferimento ai social, ma c’è qualche speranza in più.
3 – Il citizen journalism al suo massimo. Le emergenze sono i momenti in cui si manifesta in maniera più visibile una delle caratteristiche più interessanti dei social network. Quando i cittadini possono, se non “dare” una notizia, fornire uno spaccato veritiero della realtà. Allo stesso tempo però è uno dei momenti in cui un “racconto” distorto può fare più danni possibile. Entrano in ballo le categorie dell’affidabilità e della responsabilità. Il sistema di protezione civile è stato creato a favore dei cittadini che però non possono e non devono avere solo un ruolo passivo di fruitori. Questo vale anche per la comunicazione. Detto questo in momenti spesso confusi e soprattutto a rischio per la vita di tante persone l’improvvisazione non può e non deve trovare spazio. Il ruolo dei cittadini nel testimoniare un disagio o un pericolo non deve essere minimizzato ma allo stesso tempo bisogna trovare strade condivise di accettazione che la responsabilità di comunicare sia sulle spalle di istituzioni che operano secondo norme, policy e linee guida. Istituzioni che però tengano presente, anche in emergenza, attraverso procedure precise, le sollecitazioni che giungono dai cittadini.
4 – Il “noise” non così di sottofondo. E’ uno dei problemi principali della comunicazione in emergenza. Il “rumore” è tipico della comunicazione social, soprattutto di Twitter e Facebook, luoghi in cui tutti possono dire la loro. Nel caso delle emergenze il noise più comune è quello generato dai post che si intromettono nelle “conversazioni” formatesi grazie ad un determinato hashtag, ma che già dai primi minuti in cui seguono la percezione di un evento emergenziale propongono argomenti di critica, denuncia, commento o qualsivoglia altro “sentimento” comunque lontano dalle necessità del momento. Un problema che potrebbe, un giorno, con l’ulteriore sviluppo di queste modalità di comunicazione, arrecare danni alla popolazione. Un’attenta e condivisa gestione degli hashtag in emergenza è molto importante, possono avere successo nel diminuire il più possibile il noise ma, ripetiamo, l’accordo, l’adesione, di tutti gli attori istituzionali in campo sono decisivi per vincere questa partita.
5 – Il feedback, chi e quando rispondere. E’ un tema molto delicato, affrontato peraltro dal tavolo di lavoro “socialprociv”, discussione poi sfociata nelle policy e nelle linee guida di cui abbiamo parlato. Un ufficio pubblico non è concepito come una sala operativa o come una task force sempre in azione. Così si può dire per le migliaia di comuni italiani. Prescindendo dal discorso ampio e complesso dei diversi centri operativi e sale operative che vengono allestite in emergenza secondo le procedure standard del sistema di protezione civile, il punto sta in come far funzionare i team che immaginiamo o già esistenti e che si occupano di social impegnati su queste tematiche. La cosa più importante è non “bluffare” mai con i cittadini. Anzi, è prioritario annunciare gli orari o comunque le policy di risposta. E’ meglio rinunciare del tutto a rispondere che farlo senza la necessaria regolarità, rischiando di trovarsi in situazioni spiacevoli durante le emergenze. Ammettere che in emergenza non è possibile rispondere alle diverse (a volte innumerevoli) sollecitazioni che arrivano dai cittadini, aiuta la comprensione e anche la comunicazione. Se invece si decide di dare attenzione alle domande e alle critiche (che non mancano mai) o ai suggerimenti dei cittadini bisogna saper creare un coordinamento con gli uffici e le funzioni (gli “uffici” temporanei tipici delle varie DICOMAC o Sale operative o Centri operativi comunali, allestiti per la gestione dell’emergenza) e rispondere con la precisione e il tempismo necessari.
6 – Gli hashtag. Rappresentano una vera e propria metafora della confusione che regna sotto il sole della comunicazione d’emergenza. Emblematico il caso dei vari #allertameteo a cui a seconda della regione prendevano il prefisso della stessa (#allertameteoTOS, #allertameteoLIG, ecc). Un tentativo peraltro che aveva tutte le possibilità per riuscire e trovare un ampio consenso, che si è rivelato però una strada tortuosa, lastricata di difficoltà dovute al noise e al trollaggio sistematico. Siamo di fronte ad un tema su cui riflettere e cercare di non sbagliare. La direzione giusta è quella della redazione di glossari completi magari da affiancare a policy e linee guida per guidare in qualche modo la comunicazione e offrire una gamma di scelte sull’hashtag che possa convogliare la discussione sui social e “instradare” le richieste e le informazioni più urgenti nelle fasi concitate di un evento emergenziale. La scelta del giusto hashtag è direttamente conseguenziale ad un’adeguata regolamentazione della comunicazione social. Si potrebbe pensare ad glossario che una community o comunque un insieme di istituzioni può produrre e distribuire così da abituare e “instradare” i cittadini che comunicano sui social e tutti gli stakeholder interessati.
7 – Le policy e le linee guida. Il concetto sembra stonare con la “libertà” dell’internet, che a detta di molti non vuole regole e chi le impone deve sempre ricredersi perché alla fine la parte corsara avrà sempre la meglio. Sarà. Ma nelle emergenze bisogna creare un “microsistema” condiviso che accetta priorità e responsabilità. Un sistema condiviso di autodisciplina, da autoimporsi nel nome del bene della collettività in momenti delicati per la stessa vita delle persone. E’ per questo che il percorso “socilprociv”, prima di diventare effettivamente una comunità, una community, aveva redatto delle policy e delle linee guida. Le prime per appunto “creare” un sistema di valori condiviso a valle del quale operare, le seconde per coadiuvare tutti, dalle istituzioni alle strutture operative a operare sui social in emergenza. Un’esperienza che non potrà non tornare utile. Parlando di policy è molto importante la gestione del feedback, di cui abbiamo parlato diffusamente.
8 – L’occasione #socialprociv. E’ l’unico, vero progetto verso una comunicazione d’emergenza sui social consapevole, regolata e condivisa, compiuto finora. Nel 2013 il Dipartimento della Protezione civile – su proposta di soggetti competenti, a partire proprio da Il Giornale della Protezione Civile.it – ha aperto un tavolo di lavoro molto largo e variegato con diversi esponenti del sistema di protezione civile per studiare e poi redigere alcuni documenti. Ne sono scaturiti un manifesto, un documento di policy e uno di linee guida all’utilizzo dei social per tematiche di protezione civile. Sono tutti consultabili sul sito del Dipartimento. Si è giunti a redarre un manifesto perché #socialprociv è pensata come una community. L’idea alla base di tutto, vista la natura del Sistema che non prevede un vertice che decide per tutti ma un coordinamento tra componenti, era quella della condivisione e sottoscrizione delle policy e linee guida con anche una dichiarazione di intenti rappresentata da un “bollino” che le istituzioni che avrebbero preso parte alla community potevano apporre sulle proprie bio, sulla falsariga dei bollini di autenticità che diversi social network concedono a personaggi famosi, associazioni, società, istituzioni. A valle dell’adesione a policy e linee guida condivise era prevista la creazione di un “albo” che raccoglieva gli aderenti alla community. Il tutto presentato con estrema trasparenza ai cittadini con apposite modalità di comunicazione. Un percorso importante, che purtroppo però non ha ancora trovato il suo compimento definitivo. Un percorso dal quale però sarà difficile discostarsi visto appunto la natura del sistema e vista la completezza dell’impianto strutturale. A nostro avviso non si può non partire da qui.
9 – Non solo social, le chat e le app. Proliferano in diverse regioni e in diversi territori le app da scaricare sugli smartphone, dedicate soprattutto al sistema di allertamento meteo, con alcune che si affacciano anche al campo dell’allertamento e delle informazioni sul rischio da parte degli enti locali. L’auspicio è che anche i creatori delle app e i committenti possano condividere il percorso #socialprociv o comunque un percorso coordinato sulla comunicazione in emergenza così da inscrivere questi strumenti utilissimi per la popolazione in questa “nuova comunicazione” in emergenza. Non fano eccezione i canali di chat tipo Telegram peraltro in grande crescita e utilizzati anche da diversi ministeri con un discreto successo (è il caso del Ministero della pubblica istruzione o di quello dell’economia e delle finanze). Non che whatsapp, diffusissimo non sia utilizzato da alcuni sindaci sensibili alle nuove modalità di comunicazione ma lo strumento potrebbe essere usato ancora di più e rappresenta forse la modalità più rapida ed efficace per raggiungere i cittadini e creare una certa fidelizzazione. Anche in questo caso sarà importante ottimizzare linee guida per non sbagliare e non “deludere” i cittadini che cominciano ad abituarsi alla presenza di messaggi autorevoli da parte delle istituzioni in emergenza e in “tempo di pace”.