Le chat prima della tempesta

Un anno fa, il 29 ottobre 2018, intorno alle otto e mezza/nove del mattino, per le strade di Roma sembrava una giornata ventilata come tante, qualche vivace refolo di Scirocco a muovere le foglie e a far rotolare le cartacce sui sampietrini, oltre che a rendere insolitamente mite l’aria mattutina dell’autunno ormai inoltrato, e niente di più. E allora, apriti cielo, i telefonini iniziarono a trillare notifiche via via più frequenti.

Le celeberrime chat dei genitori, fra tutti i cittadini della Capitale che avessero figli a scuola (quel giorno rimasti a casa, a seguito della chiusura preventiva degli istituti per allerta meteo), presero a sciorinare sequenze di messaggini fra il sarcastico, l’astioso e il polemico nei confronti delle istituzioni, con motivo dominante i soliti esagerati, hanno chiuso le scuole per un po’ di vento…” corredato dai vari “fanno presto loro a chiudere tutto, così si parano il didietro”, culminante con l’immancabile “e a noi, che ora ci ritroviamo con i figli a casa per niente, non ci pensa nessuno”, e declinato nelle peculiari lamentele, dal“proprio oggi che avevo mille cose da fare” a tutte le possibili variazioni sul tema, la più equilibrata delle quali considerava un evento catastrofico l’aver dovuto fermare o ricalibrare, per un giorno, i propri ritmi personali e lavorativi, in conseguenza della chiusura di quei luoghi che, evidentemente, sono da molti considerati dei meri parcheggi per i pargoli, prima che degli spazi dove si mettono le più basilari fondamenta per la crescita e il futuro del Paese.

Contemporaneamente, nelle chiacchiere da bar (sia quelle dei locali propriamente detti, sia naturalmente quelle negli spazi virtuali dei social), si alzò il consueto teatrino, dal copione a sua volta trito e oltremodo abusato,  quello che vede un provvedimento istituzionale (teso, nello specifico, alla salvaguardia della pubblica incolumità) diventare occasione per esprimere o cavalcare il  malcontento popolare, e quindi per accapigliarsi (tirando in ballo tutto, tranne che il merito e la sostanza della questione) fra le fazioni “pro” o “contro” l’amministrazione che aveva adottato quella misura, con le immancabili strumentalizzazioni da parte di esponenti politici locali, pronti a cogliere l’occasione per raggranellare demagogicamente qualche consenso, a suon di “bisogna pensare ai veri problemi, invece che prendere misure inutili noncuranti dei disagi che creano ai cittadini”… nulla di particolarmente originale, storie di ordinaria ignoranza e altrettanto abituale povertà politica e culturale.

Poi, di lì a un paio d’ore, si alzò il finimondo (la tempesta di Scirocco, fra le più violente mai viste in Italia, passata alla storia per aver devastato, nello stesso giorno, i boschi del Triveneto, schiantando al suolo milioni di alberi per decine di migliaia di ettari di foreste, e per aver innescato imponenti mareggiate dalla Liguria al Tirreno all’alto Adriatico)… evento di intensità epocale a scala nazionale, capace purtroppo di causare sette vittime, tre delle quali nel Lazio, che come nelle attese fu la regione del Centro più colpita, e dove raffiche di intensità a dir poco rare sferzarono tutti i quartieri della Capitale dal centro alla periferia, compresi i rioni storici, solitamente più riparati dal tessuto urbano circostante.

Il picco dell’evento sulla scena capitolina si concentrò fra fine mattinata e primissimo pomeriggio, cioè proprio nel momento che, al suono della campanella della quinta o della sesta ora, avrebbe visto migliaia di bambini e ragazzi uscire dalle scuole, in terrificante coincidenza con la fase in cui centinaia di alberi, compresi platani, pini, querce e altre piante d’alto fusto o con tronchi di grandi dimensioni che erano al loro posto da più di mezzo secolo, vennero abbattuti come birilli dalla violenza delle raffiche, schiantandosi uno dopo l’altro su strade e marciapiedi, sventrando come lattine le automobili parcheggiate e infrangendo in diversi casi le vetrate degli edifici, comprese quelle delle classi di alcune scuole.

Scene degne degli effetti speciali di un colossal hollywoodiano, capaci di lasciare a bocca aperta i romani increduli, e di popolare istantaneamente i social (comprese le diaboliche chat dei genitori di cui sopra) di foto scattate frettolosamente con i telefonini da finestre, balconi e soglie dei negozi, corredate di “pazzesco, quell’albero era lì da prima che io nascessi” e di tutta la sfilza delle emoticons più sbigottite e terrorizzate che il campionario di whatsapp metta a disposizione.

E forse capaci, chissà, anche di far capire (almeno per un giorno, perché purtroppo abbiamo la memoria tremendamente corta) che quel provvedimento oggettivamente senza precedenti (non era mai capitato, di chiudere preventivamente le scuole di tutta Roma per allerta vento) aveva evitato che una percentuale enorme di cittadini, a partire da tantissimi bambini e ragazzi, in quel momento si trovasse in strada, davanti all’ingresso della propria scuola o sulla via del ritorno a casa, esposti a un bombardamento di rara violenza che avrebbe potuto causare decine e decine di vittime fra studenti, insegnanti e genitori, se l’esposizione al pericolo della popolazione scolastica non fosse stata provvidenzialmente azzerata – con buona pace delle chiacchiere delle nove del mattino – da quella misura di protezione civile emanata fin dal giorno precedente.

Nel trarre le conclusioni a un anno da quell’evento, vorrei poter scrivere che almeno, dopo quel giorno, avremo tutti imparato che le allerte vanno prese sul serio e non sbeffeggiate, né prese per i fondelli o fatte oggetto di malcontento da adulti che si comportano come bambini viziati e capricciosi, nonché di polemiche cafone e ignoranti, e che le previsioni dei fenomeni avversi non vanno minimizzate e sminuite con affermazioni qualunquiste e potenzialmente assassine (sissignore, perché inducono gli altri a non prestarvi credito e a sottovalutarle), ma sì che vuoi che sia un po’ di vento, sempre i soliti che ci fanno tenere i figli a casa per un nonnulla, con queste allerte inutili.

E vorrei anche poter scrivere che, d’ora in avanti,  il momento della prevenzione/gestione di un’emergenza sia il momento della responsabilità, quello, cioè, in cui le questioni che riguardano la sicurezza e la pubblica incolumità non diventino terreno di strumentalizzazione politica, nel consueto gioco delle parti fra maggioranza e opposizione, ma siano anzi l’occasione in cui quest’ultima per prima (parlo sia dei politici che dei loro fans, elettori e sostenitori di varia natura) invita i cittadini a seguire le indicazioni e ad appoggiare le scelte delle autorità a tutela della popolazione, rimandando al post-emergenza (possibilmente aspettando che gli eventuali cadaveri delle vittime siano seppelliti, perché di solito non hanno la dignità di attendere neanche questo) la diatriba e la dialettica politica.

Compresi i sacrosanti discorsi  su tutto quello che andava fatto prima, la messa in sicurezza del territorio, la prevenzione strutturale, la lotta al dissesto, la pulizia dei tombini, la manutenzione dei corsi d’acqua, delle fognature e del verde pubblico (anche se ci sono situazioni di maltempo estremo, e quella di quel giorno lo era, in cui probabilmente anche il paese più virtuoso sarebbe andato in ginocchio), tutti aspetti che, ci mancherebbe altro, sarebbe assolutamente nobile (e invece non accade quasi mai, maledizione) far diventare argomento centrale e tendenza mainstream in tempo di pace, e invece finiscono per essere tirati strumentalmente in ballo, all’insegna della dietrologia e del rimbalzo delle responsabilità, proprio nel momento dell’emergenza, in cui l’unica cosa importante sarebbe essere tutti concentrati sull’invitare i cittadini a stare in campana, e sui comportamenti in cui ciò va tradotto in quella peculiare situazione.

Mi piacerebbe, soprattutto, poter dare per assodata la consapevolezza sul fatto che gli avvisi meteorologici e le allerte, emanati a monte della catena di decisioni e provvedimenti capaci di salvare vite umane, sono informazioni per loro natura incerta, per motivi intrinseci alle leggi della Fisica, trattando sistemi molto complessi e oltremodo caotici. Quello del 29 ottobre 2018 era un caso di elevata predicibilità, e presentava quindi davvero pochi dubbi in sede previsionale e decisionale, ma tipicamente le previsioni sui fenomeni meteorologici, compresi quelli molto forti o violenti, e le stime dei loro impatti sul territorio, possono essere affette da un grado di indeterminazione non banale, sia nella gravità degli eventi che della loro tempistica e localizzazione, e questo va messo in conto, se si vuole contare sulle potenzialità del sistema di allertamento nel ridurre il rischio per le persone sotto soglie di accettabilità.

Perché l’alternativa (quella stupidamente rimpianta dai ritornelli “quando eravamo piccoli noi si andava a scuola con qualsiasi tempo” o invocata dalle demenziali critiche del dopo “avevano annunciati forti temporali nella nostra provincia ma sul comignolo di casa mia non è piovuto”) è non fare previsioni, non prendere decisioni, non prendersi responsabilità a nessun livello in vista di una possibile emergenza, lasciare che tutti vadano in giro come se niente fosse, e poi, in caso di eventi gravi… si salvi chi può.

Mi piacerebbe poter pensare tutte queste cose, ma penso sia abbastanza evidente, purtroppo, che ci sia ancora tanta strada da fare, per far diventare questi concetti cultura di massa.

Un commento

  1. Lo scorso anno, senza la tua pagina FB sarei uscito ed avrei fatto 80 km per portare mia figlia al centro diurno. Per fortuna ti ho letto in tempo e non sono andato. Ancora grazie.

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